di Valerio Millefoglie - La montagna, la famiglia. Poi l’intervento. L'esperienza di un uomo che ha combattuto contro la malattia. E oggi è al posto di guida della sua auto. E' questo uno degli argomenti su RSalute in edicola domani 5 luglio
LUI si chiama Andrea. L’altro si chiama Andrea. Sono la stessa persona. Lui è l’altro. A ventinove anni avverte un fastidio costante al braccio destro, reputa sia una conseguenza del tenere in braccio la figlia di tre anni.Poi, un giorno, all’ospedale Le Molinette di Torino, ha la diagnosi: morbo di Parkinson, il morbo dell’altro. Lui vuole fare qualcosa, prendere una direzione, l’altro rema contro e cerca di bloccarlo. Il neurologo gli dice, «Non disperi. C’è tempo. Faccia tutto quello che faceva prima». Così nei dieci anni successivi continua a fare il maestro di sci, a salire sentieri di montagna per raccogliere funghi, pescare trote e a fare il magazziniere. Apre un ristorante, costruisce un campo di bocce, insegna a sua figlia e agli altri bambini a sciare. Poi nel 2009 l’altro prende il sopravvento e lo costringe a licenziarsi. L’estate del 2012 sul lungomare di Nizza, un uomo, una donna e una ragazzina di dodici anni sono fermi sullo spartitraffico tra sei corsie. Dopo averne attraversate tre, Andrea si è bloccato proprio in mezzo alla strada. Prende una pastiglia che per fare effetto ci impiega un’ora. Per tutta quell’ora, tutta la famiglia rimarrà ferma, in attesa.
Qualche mese dopo arriva una telefonata dalle Molinette: «Possiamo ricoverarla per l’intervento». Per otto ore, sveglio in sala operatoria, ascolta il suono amplificato delle sue cellule cerebrali, risponde alle domande del chirurgo, «Quanto fa tre per tre?», parla con la psicologa di funghi e ascolta musica. Intanto, attraverso due fori nel cranio, gli viene impiantato nel cervello un elettrostimolatore che, in combinazione con i farmaci, appiana notevolmente i sintomi della malattia.
Oggi è al posto di guida della sua auto, sotto il campanile della chiesa del paese in cui abita, in val Sangone. Il finestrino incornicia il suo volto, gli occhi azzurri, la carnagione scura, la pelle dura, fatta di solchi impressi dal vento di montagna. Mi fa salire, mette in moto e ci spostiamo dal giorno feriale, diretti in alta montagna. A ogni curva le ruote sfiorano il ciglio della strada. Andrea però conosce bene il cammino, questi posti l’hanno salvato dal lasciarsi andare. Qui molti altri hanno vinto le loro battaglie. Nel 1799 i soldati piemontesi rimasti senza munizioni contrastarono le truppe di Napoleone III lanciando pietre. Durante la II guerra mondiale il nonno di Andrea si nascondeva nella conca di un grande castagno. La coperta nella quale si avvolgeva è ancora lì. Si dice che gli elefanti di Annibale abbiano lasciato impronte da queste parti. Di sicuro alla fine dell’Ottocento, Adolfo Kind scendeva da queste valli con dodici pionieri e portava per la prima volta in Italia lo sci alpino. Per Andrea non sono solo luoghi, sono persone che lo abbracciano. Più tardi, nell’orto di casa dei suoi genitori, la madre mette all’ombra una pianta di malva, il padre semina le patate.
Nel capanno degli attrezzi ci sono un uomo ragno intagliato nel legno, un tavolo, un porta candele, una serie di lavori che Andrea continua a fare, così come continua a pescare trote, raccogliere funghi e sciare. L’anno scorso ha fatto da guida a una ciaspolata notturna. La mattina si sveglia molto presto, guarda polizieschi in tv. La sera va a letto altrettanto presto, sopra il comodino ha un libro su Giulio Cesare. A fine giornata mi porta sulla cima di Punta dell’Aquila, «Un giorno sono arrivato qui correndo, sul bordo di una roccia c’era un’aquila. Quando mi ha sentito si è lasciata cadere dallo strapiombo. Mi sono affacciato e l’ho vista aprire le ali e planare». ( contiuna a leggere l'articolo sul sito )